LOG IN.




 C'è. Tempera su carta, 2012.

 Log in/Log out. Televisore, 2012.
 Mela marcia. Mela marcia, 2012.
 Sweet home. Roba, 2012.
 Privaci. Matita su carta e legno, 2012.
 Scettrico. Plastiche, 2012.
 Vista di insieme Link e Senza titolo al cubo con relativa spiegazione del cubo aperto contenente il disegno.
Link. Gesso, 2012. 
 Veduta di insieme Privaci, T9 (II), My Printer Make Sense e C'è.
 See More...Buco, 2012.
 Senza titolo al cubo. Cartone, 2012.
 Almeno. Bomboletta su nylon, 2012.
Play Station. Tubi, 2012.

Per me questa mostra va al di là dell’interessante o del noioso. Questa è una mostra autistica (ho scritto autistica e me l’ha corretto automaticamente in artistica, ma no, troppa grazia, volevo dire autistica, sul serio), realizzata con due soldi, forse, ma forse con uno solo per un pubblico che si prevede inesistente. Realizzata per noia e per nient’altro, con un filo conduttore che si alimentava di opera (licenza, mi scuso) in opera perché mi è capitato di vederla crescere e non essere pronta mai in tempo. Questa mostra è stata curata sul serio. Abbandonare tutto questo lavoro è un gesto in linea con lo spirito del gruppo 319, ma, da parte mia, rimane stupefacente.
Scrivo pochi giorni prima dell’apertura, quindi non avendo ancora visto il tutto montato, so solo come sarà, ho visto i pezzi e le loro collocazioni, conosco i motivi e i significati.
Rimane stupefacente anche quanto questo lavoro rimanga inosservato e vivo nonostante il silenzio che gli grava intorno. Questi se la dicono e se la intendono in pubblico, regalando i frutti dei loro processi mentali ma anche fisici che regolarmente vengono snobbati, li adoro e non posso farne a meno.
Sono esposti 13 pezzi, tutti legati dal tema tecnologia, e sono esposti e realizzati in modo più che artigianale, usando materiali trovati sul posto, la scelta delle cornici in vetro e punto è una delle cose che più risalta accanto alla polvere e al bianco del circostante, pochi chiodi, molta semplicità, molta immediatezza, se solo ci si avvicina a capirne il meccanismo. Non esiste, in questa stanza, nulla di astratto, non esiste nulla di difficile, quello che sembra astratto, i tre fogli frutto del processo di pulitura delle testine di una stampante (9), sono solo una presa in giro esternata nell’intervista che gli è accanto, vera opera, più di ingegnoso divertimento che d’arte, come sempre.
C’è un cubo di cartone con i profili di carta e dei buchi su ogni lato (4), come se dentro ci fosse qualcosa di vivo che necessiti di respirare, accanto una foto lo mostra aperto e colorato. Se si guarda dentro si vede solo l’altra parte attraverso il foro, un giochino inutile che riassume come guardiamo: attraverso video, foto, post.
Ma senza offesa.
Nemmeno la mela marcia tinta di bianco (6) che si guarda dal basso è stata fatta con vena polemica, ed è il riferimento, credo, al titolo della mostra stessa, che dichiara come la tecnologia ci avvizzisca sotto agli occhi con una velocità poco naturale, il modello di oggi è superato, quando sappiamo che sta per uscire quello di domani, che compriamo pensando a quello del giorno dopo.
I fili che pendolano accumulati (5) sono quello che tutti noi abbiamo nelle nostre case, il cibo dell’intrattenimento elettrico che prevede Google come dio sovrano (10) che ci dà a richiesta sesso e rock’n’roll ergendosi a droga. Perché Google c’è (2).
Il link in gesso (3) che rende oggetto una cosa solitamente delle più volatili, la maschera di pixel (7) per autooscurarsi in tempi di privacy (si, lo so, gli stessi di fb, buffo, no?), il telecomando senza tasti (13), inutile eppure riconoscibile.
L’involucro esterno di una televisione guarda su un tavolo il suo interno (12), si fissano, sembra si studino, magari si intrattengono.
Forse i miei toni sono stati troppo elegiaci, potrebbe essere vero, mi appello quindi al postulato per cui Ogni scarrafone e, vogliate scusarmi, qui dentro ce ne sono ben 13.